venerdì 31 dicembre 2010

31 dicembre 2010 - TE DEUM del cuore

Un bellissimo pezzo pubblicato oggi da Avvenire per la firma di Davide Rondoni riassume bene i sentimenti ch e si agitano nel nostro cuore in questa fine d'anno:

E ora che l’anno finisce, il cuore deve de­cidere da che parte stare. Il cuore, che è la sede delle decisioni che davvero segnano l’esistenza, come dice la Bibbia. E il nostro cuore, adesso che finisce un anno duro e pie­no di fatiche, deve decidere: lamento o gra­titudine?
Hai mille motivi per lamentarti, cuore nostro. Molte notizie che anche oggi troviamo sui giornali farebbero salire parole dure dal cuo­re. Ma come c’è la durezza della pena, c’è an­che la durezza della gioia. La resistenza, la forza della gratitudine.
La gratitudine per le cose da niente che costellano la nostra vita. Per il respiro che ancora ci viene accordato, e il riso e anche per il pianto con cui conosciamo il dolore e l’amore. Le cose che non fanno notizia, co­me il sorriso di un figlio, l’occhiata della per­sona che amiamo, il suo voltarsi quando la salutiamo. Quelle cose da niente che non fan­no notizia, ma che ci suggeriscono una gra­titudine invincibile. E noi vogliamo scegliere di rendere grazie per queste cose da niente. Vogliamo ringraziare per tutte le ma­dri che, camminando lavorando soffrendo, non perdono la speranza. E custodiscono l’amore. Per tutti quelli che non fanno no­tizia e fanno andare il mondo, mettendo cu­ra e pazienza in lavori senza onori appa­renti. Gratitudine per la bellezza spavento­sa e dolce di questo posto chiamato Italia, edificato dal genio, dalla fede e dalla opero­sità dei nostri padri, sotto i cui cieli abitia­mo e vediamo panorami per cui vale la pe­na essere venuti al mondo.
Il nostro cuore decide di ringraziare, in questa fine d’anno. Per le cose che ci hanno corretto. Per quel­le che, pure facendoci soffrire, ci hanno le­gato di più a ciò che vale. Vogliamo ren­dere grazie per la benedizione dei bambini nostri e per quelli degli altri. Per i loro visi do­ve tutto reinizia. E per la pazienza dei nostri anziani, che onorano il tempo senza sentir­lo come una ingiustizia, ma come un chiari­mento. Vogliamo ringraziare per la pazienza preziosissima dei sofferenti nel corpo, nella mente. Per chi è restato senza lavoro, ma non senza dignità. Per le cose che non fanno mai notizia, come la cura e l’amicizia offerta da tanti a chi è solo. Per il mare di bene che con onde silenziose sostiene il nostro viaggio. Ora che l’anno finisce strapperemo il cuore dalle mani del demonio lamentoso che vor­rebbe non farci vedere come i cuori di tutti cercano il bene. Ora che finisce l’anno con tutte le sue ferite e le sconfitte e le perdite, rin­grazieremo per tutti i doni, e per il segreto bene che si nasconde anche nel patimento se una mano ci passa sugli occhi come ai bambini. Ringrazieremo per tutti gli abbrac­ci silenziosi. Per i baci di amicizia e di amo­re scambiati. Per le cose da niente che non fanno notizia ma hanno fatto la vita e la spe­ranza per questo anno che finisce. E ringra­zieremo per il dono più misterioso di tutti, la fede. Per le mani che ce lo hanno offerto, per i volti che lo hanno confermato in mezzo al­le tenebre dell’anno. Per i dolci amici che ci hanno parlato di Lui, Signore buono dell’an­no che va e dell’istante che viene.

mercoledì 1 dicembre 2010

Verona e la cura dei malati, una storia di cinque secoli

L'antico Ospedale denominato Santa Casa della Misericordia era situato in piazza Bra e datava ai primi anni del '500. Nel 1520 aveva ottenuto il riconoscimento ufficiale della Repubblica di Venezia (con l'appoggio del vescovo Gian Matteo Giberti - tra i protagonisti del Concilio di Trento - e dei nobili veronesi conte Provolo Giusti e di Lodovico di Canossa, anch'egli vescovo).
«LA SANTA CASA DELLA MISERICORDIA». Con il tempo la costruzione si rivelò inadeguata. Sui lati che si affacciavano verso la Gran Guardia e l'anfiteatro, vi erano due grandi sale di degenza riservate a maschi e femmine. Tra il 1780 e il 1788 l'ingegnere capo del Comune Antonio Pasetti presentò tre progetti. Il pianterreno porticato della facciata nel 1793 risultava costruito ma il nuovo ospedale incontrò vari ostacoli al completamento, per il passaggio dei Francesi di Napoleone e degli Austriaci, che poi si insediarono in città per 50 anni. Nel 1802 era già ritenuto inadatto alle esigenze sanitarie della città.Il convento di Sant'Antonio al Corso in via Valverde, resosi libero con la soppressione degli ordini religiosi imposta da Napoleone, fu indicato come sede del nuovo ospedale, e ivi fu trasferito nel maggio 1812, cambiando denominazione: da «Santa Casa della Misericordia» a «Ospedale civico di Sant'Antonio».
Il Comune acquistò l'ex ospedale della Bra e lo fece demolire nel 1820 per realizzarvi Palazzo Barbieri, usando le colonne del vecchio ospedale.
Nel 1895 il cavalier Alessandro Alessandri destinò un lascito a un istituendo «Ospedale per bambini» per «ospitare e curare i malati poveri di ambo i sessi del Comune di Verona, tra i 3 e gli 8 anni, purché non affetti da infermità incurabili o contagiose».
L'OSPEDALE DI BORGO TRENTO. Ma subito Verona fu scossa dalle polemiche sull'ubicazione della nuova struttura, e il lascito venne affidato dal Comune al Patrio Consiglio Ospitaliero. Le discussioni accese si trascinarono finché la Cassa di Risparmio di Verona deliberò «per proprio conto» l'acquisto di 3400 metri quadrati nella zona nord-ovest di Verona (attuale borgo Trento), lungo la strada per Trento (l'attuale via Mameli), erogando 70mila lire che il Comune accettò nel 1908. L'ospedale Alessandri, ritenuto all'avanguardia in Italia e all'estero, fu inaugurato il 7 giugno 1914.
Nel 1926 il Consiglio ospitaliero acquistò un'area limitrofa per costruirvi un nuovo Tubercolosario e lasciare la sede del Chievo. Poi il progetto fu abbandonato e si pensò di utilizzare la nuova area per riunificare gli ospedali Sant'Antonio ed Alessandri. Si delineava un nuovo Ospedale Maggiore «rispondente alle nuove necessità demografiche, al progresso della scienza e alle aumentate esigenze della tecnica sanitaria». La discussione si protrasse sino al 1931.
Intanto fu approvato il progetto Beccherle che prevedeva l'ampliamento del nucleo originario dell'Alessandri e nuovi padiglioni. Il nuovo ospedale avrebbe avuto 875 posti letto, inclusi i 400 dell'Ospedale civile di Sant'Antonio e i 170 dell'Alessandri. La sua realizzazione fu un evento storico per la città. Lo stesso Benito Mussolini vide il cantiere in fase avanzata, durante la visita a Verona del 26 settembre 1938. La nuova struttura venne inaugurata il 13 settembre 1942. Di recente un accurato restauro ha reso possibile negli scorsi anni, il recupero della facciata del padiglione d'ingresso, sede delle direzioni dell'Azienda ospedaliera e oggi soggetto a vincolo architettonico perché edificio storico.

Una lezione a quest'Italia degli sprechi




Quello che si inaugura oggi a Verona è il Polo chirurgico più grande d'Europa. Una struttura che consolida e amplifica la grande tradizione scaligera nella Sanità di alto livello.
Ma fuori dallo stretto ambito medico, ciò che va anche sottolineato è come si sia arrivati a questo risultato.
In quest'Italia degli sprechi, delle prebende, dei lavori mai terminati e delle spese fuori controllo, l'esperienza veronese (pur senza eccessiva retorica) è un prezioso esempio di efficacia ed efficienza.
Intanto l'opera è stata completata nei tempi previsti (già un piccolo miracolo...) e con investimenti che poco si sono discostati dal budget iniziale. Ancora, la realizzazione è stata possibile grazie ad un lungimirante rapporto pubblico-privati. Da ultimo l'edificazione- così complessa, in quanto effettuata all'interno di un ospedale funzionante- ha comportato disagi tutto sommato contenuti per l'attività quotidiana di medici, infermieri e degenti. Certo, ora bisognerà dare sostanza al complesso, ma Verona ha le competenze per farlo.
Infine c'è la nostra personale soddisfazione che l'idea lanciata da «L'Arena», di intitolare il complesso a Confortini, abbia avuto seguito. In questo momento la sanità, come il Paese, ha bisogno di buoni esempi da ricordare. E su cui riflettere.

In primo piano il paziente. Senza dimenticare la ricerca. Quindi le cure, la terapia intensiva e le trentatre sale chirurgiche. Oltre cinquecento posti letto, ventitré reparti (tecnicamente si chiamano Unità operative), trecento medici e mille professionisti sanitari. Per un investimento di oltre 212milioni di euro. Dopo duemila giorni di cantiere, l'ospedale di Borgo Trento abbandona i suoi vecchi padiglioni, dove soprattutto con gli interventi di chirurgia e i trapianti si è fatta la storia della medicina in Italia (qui, per dire, è stato realizzato, nel 1968, il secondo trapianto di rene di tutta Italia). Ora l'ospedale più grande del Veneto (con un totale di 1700 posti letto) scommette sul futuro. Lo fa con il nuovo Polo chirurgico intitolato a Piero Confortini, pioniere della chirurgia dei trapianti.
L'edificio avveniristico, sei piani da terra per sei anni di lavoro, viene inaugurato oggi e i primi reparti entreranno in funzione prima di fine anno. Una manciata di giorni necessaria per accentrare definitivamente nella nuova struttura le attività ancora distribuite nei diversi padiglioni che, prossimamente, verranno destinati ad altro uso ospedaliero.
Alta tecnologia, modernizzazione degli spazi, centralizzazione dell'attività operatoria, contiguità con il Pronto Soccorso, collegamento con le degenze chirurgiche sono i punti cardine attorno al quale si è sviluppato il progetto presentato alla Regione Veneto nel 2002, avviato nel 2004 e terminato nel rispetto di tempi e budget. Un ospedale nell'ospedale e un valore aggiunto per la salute del paziente che ora avrà a disposizione un unico edificio per la cura.
Sostanzialmente si abbandona il vecchio concetto delle isole-reparto, dislocate in singole unità indipendenti: il nuovo Polo raggruppa le sale operatorie, la terapia intensiva, le degenze, il Pronto Soccorso e la Piastra radiologica. Cinque in uno. Niente più reparti tradizionali, dunque. La cura diventa «polo»: i reparti sono organizzati in modo polispecialistico. Il filo conduttore di tutto il progetto è l'area omogenea e l'intensità di cura che prevede la suddivisione degli spazi ospedalieri non più per area di cura ma per i diversi livelli di gravità del paziente.
Anche gli ambulatori specialistici verranno attivati in prossimità dei reparti per evitare scomode trasferte fuori sede ai pazienti sia interni che esterni. Il monoblocco con la sua piastra chirurgica tra le più grandi d'Europa, (33 sale operatorie, 17 per la chirurgia generale, 10 per la chirurgia specialistica e trapianti e 6 per la chirurgia ambulatoriale) sarà il punto di riferimento per tutto il sistema sanitario del Veneto, soprattutto per gli interventi più complessi. Oggi, su oltre quattromila accessi giornalieri (ricoveri, interventi, prestazioni ambulatoriali), il 16 per cento riguarda pazienti provenienti da fuori regione.
«Il Polo chirurgico», conferma il direttore generale dell'Azienda ospedaliera integrata, Sandro Caffi, «resterà comunque l'ospedale di riferimento dei cittadini». Attualmente sono già entrati nel monoblocco gli ambulatori di Odontostomatologia e Otorinolaringoiatra. A seguire verranno trasferiti Gastroenterologia, Anestesia e Rianimazione, Cardiologia, Chirurgia generale, Chirurgia Toracica, Chirurgia Plastica, Neurochirurgia, Neurologia, Ortopedia, Oculistica, Urologia, Neuroradiologia, Radiologia, Pneumologia e per ultimo il Pronto Soccorso.

Due date: 7 giugno 1914, 30 novembre 2010. Due inaugurazioni. Due giorni fondamentali per l'Ospedale di Borgo Trento: il primo ne segna la nascita, l'altro la virata verso il futuro. Concepito e progettato come un ospedale per bambini, un fabbricato per malattie comuni medico-chirurgiche con 180 letti (portato a termine grazie al generoso lascito di Alessandro Alessandri), fu, fin da subito, considerato il più all'avanguardia in Italia e tra i più efficienti d'Europa: 34mila metri quadrati, pianta triangolare, diversi padiglioni circondati dal verde, collegati da un'imponente area di sotterranei ed attrezzature diagnostiche di alto livello.
Oggi, il nuovo Polo Chirurgico traghetta l'ospedale di Borgo Trento nel firmamento dei centri di cura, tra i più moderni ospedali d'Italia, con soluzioni tecnico architettoniche innovative.

LE MACROAREE. Il nuovo monoblocco del Polo chirurgico è realizzato su un'area quadrangolare di oltre 96mila metri quadrati: sei piani fuori terra, due interrati e uno tecnico, su tetto la piattaforma per l'atterraggio dell'elicottero emergenza e un'ampia corte centrale.
Completa il progetto un edificio più piccolo, antistante il Polo chirurgico, destinato all'accoglienza del pubblico con punti informazioni e area ambulatoriale. Rivoluzionato anche l'accesso delle emergenze trasferito da piazzale Stefani al Lungadige, nuovo punto di inizio di tutto l'iter di diagnosi e cura. Le 33 sale chirurgiche trovano spazio al piano interrato, una accanto all'altra, due piani sopra c'è la terapia intensiva (96 posti letto per rianimazione, Unità Terapia Intensiva Coronarica, Unità di Terapia Neurovascolare e per il trattamento di pazienti trapiantati, ustionati, cardiochirurgici, neurochirurgici). Ai piani alti le degenze: 513 nuovi posti letto per i ricoveri ordinari e per la chirurgia ambulatoriale (day surgery), distribuiti su tre piani che consentiranno di accorpare le degenze chirurgiche prima distribuite nei vecchi padiglioni.

I NUMERI. Le strutture edili hanno visto l'utilizzo di 5.500 tonnellate di armature in ferro, di 48.000 metri cubi di cemento armato e di 5.500 tonnellate di carpenteria. Sono stati realizzati 170.000 metri quadrati di pareti in cartongesso, 63.000 metri quadrati di controsoffitti, 6.500 metri quadrati di serramenti esterni e sono stati posati 50.000 metri quadrati di pavimenti in linoleum o pvc.
Sono stati stesi 800 chilometri di cavi elettrici principali, 1200 di cavi per impianti luce e speciali e posizionate oltre 1000 apparecchiature elettriche. Infine sono stati 73.000 i metri cubi di demolizioni fabbricati e 220.000 i metri cubi di scavi. Per un totale di 1milione e 700mila ore di manodopera e 400mila ore di progettazione e supporto cantiere.

TEMPI E COSTI. Il costo complessivo è di 212.543.195 euro, 112 dei quali stanziati dalla Fondazione Cariverona. Il progetto definitivo è stato presentato in Regione il 10 aprile 2002, approvato a luglio e appaltato nel novembre 2003. I lavori sono iniziati a dicembre 2004 e terminati sei anni dopo. Il ministro della Salute Ferruccio Fazio, riferendosi al contributo della Fondazione, ha definito il nuovo Polo «un esempio di buon orientamento delle risorse, di come si possono armonizzare fondi privati e fondi pubblici».


mercoledì 27 ottobre 2010

Etsuro Sotoo e la Sagrada Familia






Nel 1977 Etsuro Sotoo era un giovane insegnante d’arte a Kyoto che sentiva il richiamo dell’arte stessa più che della sua didattica. «Il richiamo della pietra», dice lui. Piantò tutto e venne in Europa a far lo scultore. A Barcellona, imbattersi nella Sagrada Familia e rimanerne calamitato fu un tutt’uno. «Voglio fare lo scultore qui».

Con tenacia orientale cercò l’accesso e si ritrovò davanti all’architetto Puig i Boada, uno dei direttori del cantiere, che lo ascoltò e gli disse: «Scolpisca una foglia di nespolo». Solo una foglia? Gli sembrava un esame fin troppo banale, ma la commissione restò convinta. Quella foglia… sembrava fatta da Gaudí stesso. Non era imitazione, né falso, né piaggeria. Era sintonia. Da allora Sotoo ha completato molte parti in profondo accordo con il maestro.

Quarantatré anni dedicò Antoni Gaudí alla Sagrada Familia, dal 1883 al 1926, come i costruttori delle grandi cattedrali, in maniera sempre più intensa ed esclusiva, fino a trasferirsi dentro al cantiere. Alla sua morte era conclusa la cripta e qualche torre, ma egli vedeva l’immensa opera nei dettagli. Una soleggiata mattina d’inverno gli chiesero di spiegare il progetto e Gaudí descrisse a lungo ogni particolare con i relativi significati.

Gaudí era cosciente che il suo ingente monumento avrebbe richiesto tempi molto lunghi e l’intervento di architetti e artisti diversi in epoche di gusti e tecnologie diverse. Così non volle fissare le tecniche costruttive perché sapeva che i progressi futuri avrebbero suggerito soluzioni migliori. Ma per lo stesso motivo lasciò terminate certe parti fino alla minuzia perché servissero d’orientamento in tempi avvenire. Com’è stato. Nella Guerra civile furono distrutti i progetti.


Ci sono rimaste le sue parole, forse i suoi sogni. «Sull’altare maggiore – spiegava – si adorerà il Divino Crocifisso, dal cui braccio verticale uscirà una vite, a simboleggiare le parole di Cristo: "Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto; chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca". La vite formerà un baldacchino che sarà allo stesso tempo un lampadario. Cinquanta lampade penderanno da esso, a ricordo della frase del Salvatore: "Io sono la luce del mondo", come nel primitivo altare di san Giovanni in Laterano».

Oggi, con le navate concluse, è bellissimo sentire ancora la sua voce dinanzi a ciò che è stato costruito un secolo dopo: «Stiamo studiando il modo di imprimere agilità e permettere il passaggio della luce, ottenendo leggerezza tramite l’assenza di masse murarie, mediante un sistema di archi parabolici che conducono le spinte fino alle fondamenta… Il tempio sarà molto luminoso, con belle filtrazioni di luce, combinandosi quella che scenderà dalle alte torri con quella dei finestroni di cristallo».

Etsuro Sotoo riconosce con modestia qual è stata la chiave che ha permesso di proseguire l’opera senza un progetto: non tanto guardare Gaudí, ma guardare dove guardava Gaudí: «Unire struttura, funzionalità e simbolismo è uno dei segreti dell’opera di Gaudí che dobbiamo imparare. Nel mondo di oggi l’autentico simbolismo, quello che può dirigerci verso il nostro destino, è assente. Il simbolismo dà senso a tutti i materiali. Il disegno dei simboli è come la genetica: nel mondo c’è caos e Dio ha messo ordine. Il simbolismo è il linguaggio con cui Dio ci fa capire l’ordine delle cose». Rimettendo le mani dove le aveva messe Gaudí, aggiungendo sculture e ornamenti, Sotoo è approdato alla fede cattolica. Un suggello dell’immedesimazione col maestro.

mercoledì 1 settembre 2010

L'equazione di Drake ieri e oggi. Ovvero è impossibile che gli extraterrestri non esistano



Se le probabilità che un sistema solare riesca a sostenere la vita e a farla evolvere fossero una su un miliardo (lo 0,0000000001%), nella nostra galassia ci sarebbero almeno 200 pianeti abitati come il nostro perché in questa galassia di periferia che chiamiamo Via Lattea ci sono ben oltre 200 miliardi di stelle, ed anche perché ci sono ben oltre 170 miliardi di galassie, nell'universo conosciuto.
È così che cinquant'anni fa, nel 1961, l'astrofisico americano Frank Drake propose un modo analitico per stimare quante civiltà al nostro grado di evoluzione (ovvero civiltà che usano le trasmissioni elettromagnetiche per le comunicazioni) sono presenti nella galassia.
Il fatto curioso è che il valore di nessuna delle sette variabili dell'Equazione di Drake, è conosciuto.

Analizziamo le singole variabili:
Quante stelle nascono ogni anno? Negli anni 60, Frank Drake aveva stimato che nascessero ogni anno dieci nuove stelle. Poi, in tempi più recenti, ha deciso di rivedere al ribasso la sua stima originale: 5 stelle all'anno. In realtà, la Nasa ritiene che mediamente nascano sette nuove stelle all'anno. Col risultato che la prima variabile dell'equazione è forse l'unica ad avere un valore conosciuto.

Quante hanno dei pianeti? Fino a 15 anni fa, questa domanda non aveva una risposta certa. Drake, con una sorta di atto di fiducia, stimò che circa la metà delle stelle della galassia doveva avere qualche pianeta che gli orbita intorno. Ma dopo le prime sporadiche scoperte, con l'avvento di nuove tecnologie, le scoperte ormai si moltiplicano. Il satellite Kepler, in meno di un anno, ha già trovato 706 stelle con pianeti (5 dei quali sembrano appartenere a un sistema multiplanetario come il nostro) di proporzioni piccole come la Terra e grandi come Giove. Da queste prime osservazioni, sembra che il numero di stelle equipaggiate con pianeti potrebbe rivelarsi superiore al 50 per cento.
Quanti pianeti adatti alla vita per sistema solare? La Terra se ne sta in un angolo dorato del sistema solare, dove la vita è possibile: se fosse solo un po' più vicina al Sole come Venere, l'acqua evaporerebbe; se fosse solo un po' più lontana come Marte, ghiaccerebbe. Se la sua massa fosse come quella di Giove, la gravità sarebbe insopportabile per la vita. Così, rispondere alla terza domanda dell'equazione è molto, molto difficile: Drake stimò che due pianeti per ogni sistema multiplanetario hanno la potenzialità di sostenere la vita. In compenso, mentre fino a un anno fa la maggioranza dei pianeti extrasolari che venivano trovati erano simili a Giove. Con Keplero, stiamo scoprendo che sono più comuni i pianeti di dimensioni simili (anche se più grandi) al nostro.
In quanti appare la vita? Secondo Drake, in tutti. In altre parole, laddove ci sono le (numerose) condizioni che hanno consentito la vita sulla Terra, la vita puntualmente appare. Se un tempo questa ipotesi poteva apparire azzardata, oggi gli astrobiologi sono fondamentalmente d'accordo. Questa visione è in qualche modo sostenuta dalla scoperta di materiali organici nello spazio, a bordo di meteoriti. Dalla presenza di acqua nelle comete e in altri corpi celesti. E, osservando quel che accade sulla Terra, anche dall'esistenza di forme di vita in circostanze ambientali proibitive, come gli estremofili, batteri che prosperano alle bocche dei soffioni oceanici, dove la temperatura e la pressione sono spaventose. L'idea è che, quando ci sono le condizioni, la vita nascerà.
E in quanti la vita intelligente? Secondo alcuni, ci sono le prove che, se i dinosauri non si fossero estinti, avrebbero avuto la potenzialità di far evolvere a sufficienza la propria materia grigia. Su questo valore della sua celebre equazione, Drake ha fatto una revisione significativa: negli anni 60 stimò un 1% e qualche anno fa, il 20 per cento. Ma in effetti questo valore è assolutamente ignoto: siccome esistiamo noi, sappiamo solo che è diverso da zero. Carl Sagan, un altro entusiasta della vita extraterrestre, la mise così: «L'intelligenza è così utile all'evoluzione che, a patto che sia geneticamente fattibile, la selezione naturale sembra incoraggiata a farla apparire».
Di sicuro, se ci fossero 50 civiltà nella nostra galassia, sarebbero soltanto una ogni 4 miliardi di stelle. Se fossero 10mila, sarebbero una ogni 20 milioni. Con questo calcolo di spaventose possibilità, tutto è possibile

venerdì 20 agosto 2010

Addio al suonatore di cornamusa


«Millin, Berretti blu», urlava ne Il giorno più lungo l'attore Peter Lawford che impersonava Lord Lovat, il comandante dei commandos britannici sbarcati in Normandia. E il suonatore di cornamusa Bill Millin, che nel film era addirittura interpretato dal cornamusista ufficiale della Regina madre, Leslie de Laspee, marciava avanti e indietro sulla spiaggia battuta dai proiettili delle mitragliatrici tedesche suonando Blue Bonnets over the Border (Berretti blu oltre la frontiera, una melodia tradizionale scozzese) mentre i soldati applaudivano o gli urlavano «Buttati giù, maledetto pazzo». Finzione cinematografica? No, tutto autentico. E il vero Bill Millin, che attraversò indenne la spiaggia normanna di Sword (una foto famosa di quel giorno lo mostra di schiena mentre sta scendendo dal mezzo da sbarco con la spiaggia sullo sfondo), è morto nel Devon a 88 anni il 17 agosto, ricordato oggi da un lungo articolo sul Daily Telegraph

SUONANDO SOTTO IL FUOCO - La brigata dei commandos di Lovat aveva il compito, dopo lo sbarco, di andare verso il fiume Orne e prendere contatto con i paracadutisti inglesi che avevano conquistato i ponti sul fianco sinistro dello schieramento alleato. Pochi chilometri, ma una distanza lunghissima da percorrere sotto il fuoco nemico. Millin, con la sua cornamusa e il suo gonnellino con il tartan dei Cameron Highlanders, se li fece quasi tutti suonando Hieland Laddie e The Road to the Isles in piedi tra i soldati, visibilissimo anche per i tedeschi che sparavano da tutte le parti (la cornamusa fu danneggiata dalle schegge ma restò utilizzabile). «Non dimenticherò mai il lamento della cornamusa di Bill - disse molti anni dopo il veterano Tom Duncan -. E' difficile da descrivere l'effetto che faceva. Ci tirava su il morale e aumentava la nostra determinazione. Ne eravamo orgogliosi e ci ricordava la patria e i motivi per i quali stavamo combattendo, per le nostre vite e per quelle dei nostri cari». In serata Millin, che allora, nel 1944, aveva 22 anni, chiese ad alcuni prigionieri tedeschi perchè non gli avessero sparato e quelli gli risposero che pensavano fosse un pazzo per cui non valeva la pena sprecare proiettili.

DALLA NORMANDIA A LUBECCA - Scozzese di Glasgow, Millin aveva incontrato Lord Lovat, il capo ereditario del clan Frasier e discendente di una lunga dinastia di combattenti scozzesi, nel 1941, quando erano entrambi nei commandos, le truppe speciali che compivano incursioni «mordi e fuggi» nell'Europa occupata dai tedeschi: il Lord gli offrì di diventare il suo attendente ma lui rifiutò e così divenne il cornamusista personale (il piper) del comandante. In quel ruolo si fece un bel pezzo di guerra, dalla Normandia all'Olanda e fino a Lubecca, una delle più importanti città tedesche conquistate dall'esercito britannico. Alla fine del conflitto se ne tornò alla vita civile. Ma la sua cornamusa (che ora, dice il Telegraph, si trova al National War Museum di Edinburgo) risuonò ancora nel 1995 ai funerali di Lord Lovat, il suo capo, che dopo la guerra era anche diventato, per un po', il suo datore di lavoro. D'altronde il legame tra i due era fortissimo, cementato dalla comune origine. Un esempio? Il ministero della Guerra, dopo le forti perdite subite dai suonatori di cornamuse nella prima guerra mondiale, aveva proibito il loro impiego sui campi di battaglia. «Ah, ma quello è il ministero della Guerra inglese - disse Lovat . Tu ed io siamo scozzesi, per noi non vale». E Millin se ne partì per la Normandia.

martedì 13 luglio 2010

È americano il capo dei ribelli islamici in Somalia



Gli occhi spiritati, la barba lunga con il fucile in mano e la kafiah in testa: «Sono diventato un somalo. Io ho l'odio. Io ho l'amore. Non potevo sognare una vita più bella di questa». Le parole del video che gira su YouTube hanno il sapore della propaganda e dell'esaltazione. A scandirle è Omar Hammami, ragazzo di 26 anni, nato in Alabama, America profonda, che ora si trova a fare una "bella vita" a Mogadiscio con il nome di guerra di Abou Mansoor al-Amriki - l'americano - alla guida dei ribelli islamici al-Shabab che combattono contro il governo transitorio (anch'esso islamico ma moderato) e contro la modernità.

Dall'Alabama a Mogadiscio La storia di Omar Hammami è stata raccontata dal New York Times e ha fatto in breve il giro del mondo. Una storia paradossale. Considerando che la Somalia è una terra di nessuno, bestia nera per gli americani e la loro lotta al terrorismo e che a capo dei terroristi somali c'è proprio un ragazzo americano, dalla testa ai piedi, figlio di un ingegnere siriano e di una maestra americana. Cresciuto in un paese del Sud, in Alabama, terra di coltivazioni di cotone e di epopea blues, il giovane Omar ha frequentato la chiesa battista fino ai suoi 15 anni. Cantava a Natale nel coro della parrocchia. Gli amici lo ricordano come un tipo brillante, appassionato dei Nirvana e dei videogiochi sulla Nintendo. Teen ager cresciuto ad hamburger e onion ring che leggeva Shakespeare e sognava di diventare medico chirurgo. Dieci anni dopo, Omar è finito a 13mila km di distanza dalla sua Alabama a fare la "bella vita" nel Corno D'Africa. Ormai la sua casa è l'inferno di Mogadiscio: è diventato il capo delle milizie islamiche tra le più brutali nel mondo, gli al-Shabab, legati a doppio giro alla rete di al-Qaeda, che si sono dati come obiettivo quello di sconfiggere il fragile governo di transizione somalo, anch'esso islamico, ma moderato, sostenuto dagli Stati Uniti e dalla comunità internazionale.
Contro la modernità Due giorni fa gli shabab hanno attaccato la
sede del palazzo presidenziale a Mogadiscio. I caschi blu africani sono riusciti a respingere l'attacco. Per ora. Gli shabab hanno reso la capitale somala una città fantasma. Hanno perfino vietato il gioco del calcio, la palla in strada e l'uso dei videogiochi. Contrari, dicono, alle regole dell'Islam. Quale Islam? Qualche mese fa hanno messo una bomba in un albergo dove il ministro di transizione somalo all'istruzione premiava alcuni ragazzi che nell'inferno somalo erano riusciti a laurearsi.

Rap e guerra santa La Somalia è diventata negli ultimi anni il punto di ritrovo degli jihaidisti provenienti da tutto il mondo. Gli americani arrivati qui per fare la guerra santa sono più di una ventina, secondo la Cia. Nati da genitori somali perlopiù, cresciuti nelle periferie delle metropoli Usa. Omar che qui ha preso il nome di guerra di Abou Mansoor al-Amriki - che significa l'americano - non ci ha messo molto a emergere e a diventare un leader. In un recente video su YouTube lo si vede al comando di un gruppo di ribelli armati, con il sottofondo di un rap islamista mentre si rivolge, lo sguardo fisso alla camera, e grida sicuro di sé, come se stesse facendo la cosa più normale del mondo, che a Mogadiscio gli shabab sono pronti: «Stiamo aspettando il nemico. Lo uccideremo».
"L'americano" In soli tre anni Hammami è diventato il capo riconosciuto degli shabab. "L'americano" prepara gli attacchi a Mogadiscio e definisce le strategie di guerra con i responsabili di al-Qaida. E' diventato una sorta di icona di combattente islamico per i fanatici della guerra santa e attira, con il suo esempio, centinaia di combattenti stranieri. Ma la sua conversione all'Islam radicale è maturata da poco. Dopo l'attentato dell'11 settembre e con la guerra in Irak. Poco a poco imbraccia la dottrina salafita e si convince che se i musulmani nel mondo soffrono è perché hanno perduto la loro vera religione. Bisogna, dice, lanciarsi in una guerra santa spirituale e praticare i precetti della religione con vera devozione. Comincia a non ascoltare più musica, a non guardare più le ragazze della sua età, a badare di non dormire mai rivolto di schiena alla Mecca. Nel 2002 abbandona l'Università perché non sopporta più stare assieme a persone diverse da lui. Si trasferisce a Toronto, in Canada, dove vive una importante comunità musulmana. Da lì comincia a considerare gli Stati Uniti, suo paese natale, in maniera differente: il nemico da combattere. Sposa una bella ragazza somala, Sadiyo Mohamed Abdille, rifugiata in Canada. Ma dopo pochi mesi, decidono di andare a vivere in un paese musulmano e si trasferiscono in Egitto. Ormai Omar parla arabo correttamente. Il Sud, cioè la Somalia, è la sua terra santa. Si trasferisce lì e comincia a combattere a nome dell'Islam nella guerra civile che dal 1991 ha devastato l'ex colonia italiana, in un caos infernale tra signori della guerra, fazioni e pirati. E' intelligente, preparato, conosce bene le nuove tecnologie e non ci mette molto a diventare il capo delle operazioni militari dei ribelli. Il resto è cronaca.


Da ilSole24ore - Riccardo Baarlam

KAMPALA

Ieri sera ho ascoltato tutti i telegiornali nella speranza di avere aggiornamenti su quanto accaduto in Uganda ed ho così visto i servizi sul gay pride, sui festeggiamenti a Madrid per la vittoria nella coppa del mondo, sulle stupidaggini di Casini, Bossi, Di Pietro, Fini, sull'afa, ma nulla, assolutamente nulla, sui 72 morti nell'attentato terroristico di Kampala. Solo il telegiornale della BBC all'una di notte ha dato un breve aggiornamento. Mi domando cosa sarebbe accaduto dal punto di vista mediatico se il medesimo attentato si fosse verificato in un paese europeo.... questo ci dà l'idea di quanto sia decadente il nostro Paese, ormai in declino, diviso, rinchiuso in se stesso, concentrato sul suo presente, sugli interessi corporativi, incapace di vedere oltre la rete del giardino di casa. E' triste pensare che la vita degli africani valga meno dei servizi stantii sull'afa estiva.

sabato 2 gennaio 2010

ELISA: DOV'E' FINITA LA "PIETAS"

Lettera inviata al Giornale di Vicenza (che probabilmente non verrà mai pubblicata)


Spett. Sig. Direttore,

stiamo assistendo, giorno per giorno, ad un progressivo imbarbarimento della nostra società che si manifesta non solo attraverso lo spettacolo indecoroso della politica, ma anche attraverso fatti apparentemente insignificanti o considerati normali e soprattutto, attraverso un cattivo giornalismo. Come ha affermato il Papa nella sua omelia dell’8 dicembre, i giornali, abituandoci alle cose piu' orribili ci fanno diventare insensibili e, in qualche maniera, ci intossicano.

Purtroppo devo rilevare con rammarico che anche il suo giornale non è esente da questa deriva. Mi riferisco all’articolo di Ivano Tolettini pubblicato in prima pagina il 30 dicembre 2009 col titolo “Muore disidratata a due anni”.

Cosa c’è di tanto terribile i questo articolo ? In realtà, leggendolo, non si rileva nulla di particolare se non una cronaca asciutta, impersonale, intrisa di luoghi comuni, ma è il titolo che sconvolge, la sua posizione in prima pagina, la sua crudeltà, la sua violenza che richiama immediatamente l’attenzione e fa pensare ad un fattaccio di cronaca nera, a chissà quale colpa o sbadataggine della mamma che avrebbe lasciato morire la sua bimba o magari, tra le righe, ad un possibile episodio di malasanità. Tutto è lecito pur di far “cassetta”, di aumentare le vendite.

Dove è finita la “pietas” ? La civiltà romana, all’apice del suo fulgore, aveva fatto della “pietas”, celebrata da Virgilio nell’Eneide, il centro del suo insegnamento morale.

La “pietas” è definibile come una qualità universale, in quanto occupa i principali campi del vivere umano: si tratta di dovere e devozione verso gli dei, di amore ed affetto, tanto per i genitori ed i figli quanto per la patria e gli amici, e infine di personale clemenza, giustizia e senso del dovere. Vi è nella pietas l’apertura a valori anche nuovi che prenderanno forma in età successive: misericordia e humanitas.

La “pietas” intesa come capacità di ragionare con calma contrapposta al “furor” ovvero un modo di agire abbandonandosi alle emozioni senza ragionare (Enea contrapposto a Turno).

La nostra civiltà è diventata la civiltà del giustizialimo spiccio, del furor di popolo, del razionalismo esasperato: l’errore umano non è ammesso, se succede qualcosa di imprevisto deve esserci comunque un responsabile che deve pagare, tutto si può spiegare con l’apporto della scienza. Oggi è scomparso completamente il senso del divino e del soprannaturale, il mistero della vita e della morte, il calore umano e la partecipazione.

Un fatto cosi’ drammatico come la morte improvvisa di una bambina andrebbe raccontato con delicatezza, attenzione, partecipazione e tenerezza. Ogni uomo ed in particolare una mamma colpita da una disgrazia cosi’ grave andrebbe trattato come una realtà sacra, pechè ogni storia umana è una storia sacra e richiede il più grande rispetto.