venerdì 31 dicembre 2010
31 dicembre 2010 - TE DEUM del cuore
E ora che l’anno finisce, il cuore deve decidere da che parte stare. Il cuore, che è la sede delle decisioni che davvero segnano l’esistenza, come dice la Bibbia. E il nostro cuore, adesso che finisce un anno duro e pieno di fatiche, deve decidere: lamento o gratitudine?
Hai mille motivi per lamentarti, cuore nostro. Molte notizie che anche oggi troviamo sui giornali farebbero salire parole dure dal cuore. Ma come c’è la durezza della pena, c’è anche la durezza della gioia. La resistenza, la forza della gratitudine.
La gratitudine per le cose da niente che costellano la nostra vita. Per il respiro che ancora ci viene accordato, e il riso e anche per il pianto con cui conosciamo il dolore e l’amore. Le cose che non fanno notizia, come il sorriso di un figlio, l’occhiata della persona che amiamo, il suo voltarsi quando la salutiamo. Quelle cose da niente che non fanno notizia, ma che ci suggeriscono una gratitudine invincibile. E noi vogliamo scegliere di rendere grazie per queste cose da niente. Vogliamo ringraziare per tutte le madri che, camminando lavorando soffrendo, non perdono la speranza. E custodiscono l’amore. Per tutti quelli che non fanno notizia e fanno andare il mondo, mettendo cura e pazienza in lavori senza onori apparenti. Gratitudine per la bellezza spaventosa e dolce di questo posto chiamato Italia, edificato dal genio, dalla fede e dalla operosità dei nostri padri, sotto i cui cieli abitiamo e vediamo panorami per cui vale la pena essere venuti al mondo.
Il nostro cuore decide di ringraziare, in questa fine d’anno. Per le cose che ci hanno corretto. Per quelle che, pure facendoci soffrire, ci hanno legato di più a ciò che vale. Vogliamo rendere grazie per la benedizione dei bambini nostri e per quelli degli altri. Per i loro visi dove tutto reinizia. E per la pazienza dei nostri anziani, che onorano il tempo senza sentirlo come una ingiustizia, ma come un chiarimento. Vogliamo ringraziare per la pazienza preziosissima dei sofferenti nel corpo, nella mente. Per chi è restato senza lavoro, ma non senza dignità. Per le cose che non fanno mai notizia, come la cura e l’amicizia offerta da tanti a chi è solo. Per il mare di bene che con onde silenziose sostiene il nostro viaggio. Ora che l’anno finisce strapperemo il cuore dalle mani del demonio lamentoso che vorrebbe non farci vedere come i cuori di tutti cercano il bene. Ora che finisce l’anno con tutte le sue ferite e le sconfitte e le perdite, ringrazieremo per tutti i doni, e per il segreto bene che si nasconde anche nel patimento se una mano ci passa sugli occhi come ai bambini. Ringrazieremo per tutti gli abbracci silenziosi. Per i baci di amicizia e di amore scambiati. Per le cose da niente che non fanno notizia ma hanno fatto la vita e la speranza per questo anno che finisce. E ringrazieremo per il dono più misterioso di tutti, la fede. Per le mani che ce lo hanno offerto, per i volti che lo hanno confermato in mezzo alle tenebre dell’anno. Per i dolci amici che ci hanno parlato di Lui, Signore buono dell’anno che va e dell’istante che viene.
mercoledì 1 dicembre 2010
Verona e la cura dei malati, una storia di cinque secoli

Una lezione a quest'Italia degli sprechi




mercoledì 27 ottobre 2010
Etsuro Sotoo e la Sagrada Familia


Con tenacia orientale cercò l’accesso e si ritrovò davanti all’architetto Puig i Boada, uno dei direttori del cantiere, che lo ascoltò e gli disse: «Scolpisca una foglia di nespolo». Solo una foglia? Gli sembrava un esame fin troppo banale, ma la commissione restò convinta. Quella foglia… sembrava fatta da Gaudí stesso. Non era imitazione, né falso, né piaggeria. Era sintonia. Da allora Sotoo ha completato molte parti in profondo accordo con il maestro.
Quarantatré anni dedicò Antoni Gaudí alla Sagrada Familia, dal 1883 al 1926, come i costruttori delle grandi cattedrali, in maniera sempre più intensa ed esclusiva, fino a trasferirsi dentro al cantiere. Alla sua morte era conclusa la cripta e qualche torre, ma egli vedeva l’immensa opera nei dettagli. Una soleggiata mattina d’inverno gli chiesero di spiegare il progetto e Gaudí descrisse a lungo ogni particolare con i relativi significati.
Gaudí era cosciente che il suo ingente monumento avrebbe richiesto tempi molto lunghi e l’intervento di architetti e artisti diversi in epoche di gusti e tecnologie diverse. Così non volle fissare le tecniche costruttive perché sapeva che i progressi futuri avrebbero suggerito soluzioni migliori. Ma per lo stesso motivo lasciò terminate certe parti fino alla minuzia perché servissero d’orientamento in tempi avvenire. Com’è stato. Nella Guerra civile furono distrutti i progetti.
Ci sono rimaste le sue parole, forse i suoi sogni. «Sull’altare maggiore – spiegava – si adorerà il Divino Crocifisso, dal cui braccio verticale uscirà una vite, a simboleggiare le parole di Cristo: "Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto; chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca". La vite formerà un baldacchino che sarà allo stesso tempo un lampadario. Cinquanta lampade penderanno da esso, a ricordo della frase del Salvatore: "Io sono la luce del mondo", come nel primitivo altare di san Giovanni in Laterano».
Oggi, con le navate concluse, è bellissimo sentire ancora la sua voce dinanzi a ciò che è stato costruito un secolo dopo: «Stiamo studiando il modo di imprimere agilità e permettere il passaggio della luce, ottenendo leggerezza tramite l’assenza di masse murarie, mediante un sistema di archi parabolici che conducono le spinte fino alle fondamenta… Il tempio sarà molto luminoso, con belle filtrazioni di luce, combinandosi quella che scenderà dalle alte torri con quella dei finestroni di cristallo».
Etsuro Sotoo riconosce con modestia qual è stata la chiave che ha permesso di proseguire l’opera senza un progetto: non tanto guardare Gaudí, ma guardare dove guardava Gaudí: «Unire struttura, funzionalità e simbolismo è uno dei segreti dell’opera di Gaudí che dobbiamo imparare. Nel mondo di oggi l’autentico simbolismo, quello che può dirigerci verso il nostro destino, è assente. Il simbolismo dà senso a tutti i materiali. Il disegno dei simboli è come la genetica: nel mondo c’è caos e Dio ha messo ordine. Il simbolismo è il linguaggio con cui Dio ci fa capire l’ordine delle cose». Rimettendo le mani dove le aveva messe Gaudí, aggiungendo sculture e ornamenti, Sotoo è approdato alla fede cattolica. Un suggello dell’immedesimazione col maestro.
mercoledì 1 settembre 2010
L'equazione di Drake ieri e oggi. Ovvero è impossibile che gli extraterrestri non esistano

È così che cinquant'anni fa, nel 1961, l'astrofisico americano Frank Drake propose un modo analitico per stimare quante civiltà al nostro grado di evoluzione (ovvero civiltà che usano le trasmissioni elettromagnetiche per le comunicazioni) sono presenti nella galassia.
Il fatto curioso è che il valore di nessuna delle sette variabili dell'Equazione di Drake, è conosciuto.
Quante stelle nascono ogni anno? Negli anni 60, Frank Drake aveva stimato che nascessero ogni anno dieci nuove stelle. Poi, in tempi più recenti, ha deciso di rivedere al ribasso la sua stima originale: 5 stelle all'anno. In realtà, la Nasa ritiene che mediamente nascano sette nuove stelle all'anno. Col risultato che la prima variabile dell'equazione è forse l'unica ad avere un valore conosciuto.
Quanti pianeti adatti alla vita per sistema solare? La Terra se ne sta in un angolo dorato del sistema solare, dove la vita è possibile: se fosse solo un po' più vicina al Sole come Venere, l'acqua evaporerebbe; se fosse solo un po' più lontana come Marte, ghiaccerebbe. Se la sua massa fosse come quella di Giove, la gravità sarebbe insopportabile per la vita. Così, rispondere alla terza domanda dell'equazione è molto, molto difficile: Drake stimò che due pianeti per ogni sistema multiplanetario hanno la potenzialità di sostenere la vita. In compenso, mentre fino a un anno fa la maggioranza dei pianeti extrasolari che venivano trovati erano simili a Giove. Con Keplero, stiamo scoprendo che sono più comuni i pianeti di dimensioni simili (anche se più grandi) al nostro.
In quanti appare la vita? Secondo Drake, in tutti. In altre parole, laddove ci sono le (numerose) condizioni che hanno consentito la vita sulla Terra, la vita puntualmente appare. Se un tempo questa ipotesi poteva apparire azzardata, oggi gli astrobiologi sono fondamentalmente d'accordo. Questa visione è in qualche modo sostenuta dalla scoperta di materiali organici nello spazio, a bordo di meteoriti. Dalla presenza di acqua nelle comete e in altri corpi celesti. E, osservando quel che accade sulla Terra, anche dall'esistenza di forme di vita in circostanze ambientali proibitive, come gli estremofili, batteri che prosperano alle bocche dei soffioni oceanici, dove la temperatura e la pressione sono spaventose. L'idea è che, quando ci sono le condizioni, la vita nascerà.
E in quanti la vita intelligente? Secondo alcuni, ci sono le prove che, se i dinosauri non si fossero estinti, avrebbero avuto la potenzialità di far evolvere a sufficienza la propria materia grigia. Su questo valore della sua celebre equazione, Drake ha fatto una revisione significativa: negli anni 60 stimò un 1% e qualche anno fa, il 20 per cento. Ma in effetti questo valore è assolutamente ignoto: siccome esistiamo noi, sappiamo solo che è diverso da zero. Carl Sagan, un altro entusiasta della vita extraterrestre, la mise così: «L'intelligenza è così utile all'evoluzione che, a patto che sia geneticamente fattibile, la selezione naturale sembra incoraggiata a farla apparire».
Di sicuro, se ci fossero 50 civiltà nella nostra galassia, sarebbero soltanto una ogni 4 miliardi di stelle. Se fossero 10mila, sarebbero una ogni 20 milioni. Con questo calcolo di spaventose possibilità, tutto è possibile
venerdì 20 agosto 2010
Addio al suonatore di cornamusa

martedì 13 luglio 2010
È americano il capo dei ribelli islamici in Somalia

Dall'Alabama a Mogadiscio La storia di Omar Hammami è stata raccontata dal New York Times e ha fatto in breve il giro del mondo. Una storia paradossale. Considerando che la Somalia è una terra di nessuno, bestia nera per gli americani e la loro lotta al terrorismo e che a capo dei terroristi somali c'è proprio un ragazzo americano, dalla testa ai piedi, figlio di un ingegnere siriano e di una maestra americana. Cresciuto in un paese del Sud, in Alabama, terra di coltivazioni di cotone e di epopea blues, il giovane Omar ha frequentato la chiesa battista fino ai suoi 15 anni. Cantava a Natale nel coro della parrocchia. Gli amici lo ricordano come un tipo brillante, appassionato dei Nirvana e dei videogiochi sulla Nintendo. Teen ager cresciuto ad hamburger e onion ring che leggeva Shakespeare e sognava di diventare medico chirurgo. Dieci anni dopo, Omar è finito a 13mila km di distanza dalla sua Alabama a fare la "bella vita" nel Corno D'Africa. Ormai la sua casa è l'inferno di Mogadiscio: è diventato il capo delle milizie islamiche tra le più brutali nel mondo, gli al-Shabab, legati a doppio giro alla rete di al-Qaeda, che si sono dati come obiettivo quello di sconfiggere il fragile governo di transizione somalo, anch'esso islamico, ma moderato, sostenuto dagli Stati Uniti e dalla comunità internazionale.
Contro la modernità Due giorni fa gli shabab hanno attaccato la sede del palazzo presidenziale a Mogadiscio. I caschi blu africani sono riusciti a respingere l'attacco. Per ora. Gli shabab hanno reso la capitale somala una città fantasma. Hanno perfino vietato il gioco del calcio, la palla in strada e l'uso dei videogiochi. Contrari, dicono, alle regole dell'Islam. Quale Islam? Qualche mese fa hanno messo una bomba in un albergo dove il ministro di transizione somalo all'istruzione premiava alcuni ragazzi che nell'inferno somalo erano riusciti a laurearsi.
"L'americano" In soli tre anni Hammami è diventato il capo riconosciuto degli shabab. "L'americano" prepara gli attacchi a Mogadiscio e definisce le strategie di guerra con i responsabili di al-Qaida. E' diventato una sorta di icona di combattente islamico per i fanatici della guerra santa e attira, con il suo esempio, centinaia di combattenti stranieri. Ma la sua conversione all'Islam radicale è maturata da poco. Dopo l'attentato dell'11 settembre e con la guerra in Irak. Poco a poco imbraccia la dottrina salafita e si convince che se i musulmani nel mondo soffrono è perché hanno perduto la loro vera religione. Bisogna, dice, lanciarsi in una guerra santa spirituale e praticare i precetti della religione con vera devozione. Comincia a non ascoltare più musica, a non guardare più le ragazze della sua età, a badare di non dormire mai rivolto di schiena alla Mecca. Nel 2002 abbandona l'Università perché non sopporta più stare assieme a persone diverse da lui. Si trasferisce a Toronto, in Canada, dove vive una importante comunità musulmana. Da lì comincia a considerare gli Stati Uniti, suo paese natale, in maniera differente: il nemico da combattere. Sposa una bella ragazza somala, Sadiyo Mohamed Abdille, rifugiata in Canada. Ma dopo pochi mesi, decidono di andare a vivere in un paese musulmano e si trasferiscono in Egitto. Ormai Omar parla arabo correttamente. Il Sud, cioè la Somalia, è la sua terra santa. Si trasferisce lì e comincia a combattere a nome dell'Islam nella guerra civile che dal 1991 ha devastato l'ex colonia italiana, in un caos infernale tra signori della guerra, fazioni e pirati. E' intelligente, preparato, conosce bene le nuove tecnologie e non ci mette molto a diventare il capo delle operazioni militari dei ribelli. Il resto è cronaca.
KAMPALA


sabato 2 gennaio 2010
ELISA: DOV'E' FINITA LA "PIETAS"

Lettera inviata al Giornale di Vicenza (che probabilmente non verrà mai pubblicata)
Spett. Sig. Direttore,
stiamo assistendo, giorno per giorno, ad un progressivo imbarbarimento della nostra società che si manifesta non solo attraverso lo spettacolo indecoroso della politica, ma anche attraverso fatti apparentemente insignificanti o considerati normali e soprattutto, attraverso un cattivo giornalismo. Come ha affermato il Papa nella sua omelia dell’8 dicembre, i giornali, abituandoci alle cose piu' orribili ci fanno diventare insensibili e, in qualche maniera, ci intossicano.
Purtroppo devo rilevare con rammarico che anche il suo giornale non è esente da questa deriva. Mi riferisco all’articolo di Ivano Tolettini pubblicato in prima pagina il 30 dicembre 2009 col titolo “Muore disidratata a due anni”.
Cosa c’è di tanto terribile i questo articolo ? In realtà, leggendolo, non si rileva nulla di particolare se non una cronaca asciutta, impersonale, intrisa di luoghi comuni, ma è il titolo che sconvolge, la sua posizione in prima pagina, la sua crudeltà, la sua violenza che richiama immediatamente l’attenzione e fa pensare ad un fattaccio di cronaca nera, a chissà quale colpa o sbadataggine della mamma che avrebbe lasciato morire la sua bimba o magari, tra le righe, ad un possibile episodio di malasanità. Tutto è lecito pur di far “cassetta”, di aumentare le vendite.
Dove è finita la “pietas” ? La civiltà romana, all’apice del suo fulgore, aveva fatto della “pietas”, celebrata da Virgilio nell’Eneide, il centro del suo insegnamento morale.
La “pietas” è definibile come una qualità universale, in quanto occupa i principali campi del vivere umano: si tratta di dovere e devozione verso gli dei, di amore ed affetto, tanto per i genitori ed i figli quanto per la patria e gli amici, e infine di personale clemenza, giustizia e senso del dovere. Vi è nella pietas l’apertura a valori anche nuovi che prenderanno forma in età successive: misericordia e humanitas.
La “pietas” intesa come capacità di ragionare con calma contrapposta al “furor” ovvero un modo di agire abbandonandosi alle emozioni senza ragionare (Enea contrapposto a Turno).
La nostra civiltà è diventata la civiltà del giustizialimo spiccio, del furor di popolo, del razionalismo esasperato: l’errore umano non è ammesso, se succede qualcosa di imprevisto deve esserci comunque un responsabile che deve pagare, tutto si può spiegare con l’apporto della scienza. Oggi è scomparso completamente il senso del divino e del soprannaturale, il mistero della vita e della morte, il calore umano e la partecipazione.
Un fatto cosi’ drammatico come la morte improvvisa di una bambina andrebbe raccontato con delicatezza, attenzione, partecipazione e tenerezza. Ogni uomo ed in particolare una mamma colpita da una disgrazia cosi’ grave andrebbe trattato come una realtà sacra, pechè ogni storia umana è una storia sacra e richiede il più grande rispetto.