domenica 13 dicembre 2020

Vita e destino” è uno straordinario romanzo che potrebbe essere definito la “Guerra e pace” del XX secolo. Rivive l’epopea della battaglia di Stalingrado, attraverso una miriade di personaggi, non solo sovietici ma anche tedeschi, le cui travagliate vicissitudini delineano un efficace ritratto dei due regimi in lotta, il nazismo e il comunismo. Ogni epoca ha una città che la rappresenta e ne costituisce l’anima, la volontà. La seconda guerra mondiale è stata un’epoca dell’umanità e in quegli anni Stalingrado è stata la capitale del mondo. Stalingrado era i pensieri e le passioni del genere umano. Krymov aveva l’impressione che la storia non fosse più un libro, ma che fosse confluita nella vita vera, confondendosi con essa. Mentre Tolstoj non esitava ad affermare la superiorità del popolo russo, del suo carattere e dei suoi condottieri, Grossman appare molto più realista e non nasconde che le ideologie nazista e stalinista non differiscono poi troppo tra loro, avendo entrambe tra i loro segreti propositi quello di asservire la libertà degli individui a un superiore obiettivo, quello dello Stato totalitario. Stalin costruisce quel che serve allo Stato, e non all’uomo. L’industria pesante serve allo Stato, non all’uomo. La gente non se ne fa nulla del canale tra Mar Bianco e Mar Baltico. Le esigenze dello Stato sono a un estremo, quelle dell’uomo all’altro. E non si concilieranno mai». Il comandante nazista del lagher, Liss, riesce a turbare il prigioniero bolscevico tutto d’un pezzo Mostovskoj affermnando: «Quando io e lei ci guardiamo in faccia, non vediamo solo un viso che odiamo. È come se ci guardassimo allo specchio. È questa la tragedia della nostra epoca. L’ipostasi più evidente di questa situazione è quella dei campi di concentramento dove milioni di persone (e qui lager e gulag hanno veramente pochi punti di discontinuità) sono morte e hanno lavorato in condizioni di schiavitù. L’autore si domanda come possano essersi sviluppati all’insaputa o con la condiscendenza del popolo Era in piedi di fronte a Mostovskoj con i suoi miseri abiti e lo straccio in mano, austero, inflessibile, convinto di essere nel giusto, certo del proprio diritto più che divino di fare della causa che serviva il giudice sommo dei destini umani. Perché che cosa poteva, lui, contro la volontà di forze possenti come una guerra mondiale, un poderoso movimento nazionalista, un partito implacabile e uno Stato coercitivo? Chi ha peccato ha conosciuto sulla sua pelle la potenza – sterminata – di uno Stato totalitario, una forza tremenda che incatena la volontà umana con la propaganda, la fame, la solitudine, il lager, la minaccia di morte, l’anonimato, l’ignominia. Ogni passo che compie sotto la minaccia della miseria, della fame, del lager e della morte, l’uomo ha sempre e comunque accanto la propria volontà, libera e senza catene. Il destino prende per mano l’uomo, ma l’uomo lo segue perché vuole ed è comunque libero di non farlo. Il destino prende per mano l’uomo e l’uomo diventa strumento di forze di sterminio: perché ci guadagna, non perché ci rimette. Lui lo sa bene e sceglie di guadagnarci; il destino e l’uomo avranno anche scopi diversi, ma la strada è una sola. I personaggi del romanzo appartengono alle più varie tipologie: dai militanti più fanatici ai cittadini ideologicamente meno ossequiosi, scorrono nelle sue 800 pagine tantissimi esemplari umani, tutti omologati dal conformismo del terrore, in un periodo in cui bastava una semplice battuta o una parola fuori posto per perdere il posto di lavoro o, peggio, per finire deportati in Siberia. A volte l’odio tra chi appartiene allo stesso partito e ha opinioni che si distinguono solo nelle sfumature è maggiore dell’odio verso chi del partito è nemico. Si respira ovunque un clima asfissiante e kafkiano, che l’emergenza bellica attenua solamente in parte, visto che anche al fronte imperversano i commissari di partito, i quali vigilano con ottusa solerzia affinché non venga mai meno nemmeno nelle trincee l’ortodossia ideologica del regime. Aveva portato in tribunale gli ingegneri del Kuzbass che avevano nostalgia della famiglia a Mosca. Aveva fatto condannare quaranta operai socialmente ambigui che avevano lasciato il cantiere per tornare al paese. E aveva rinnegato suo padre, un borghese. Essere inflessibili era una gioia. Esercitando la sua discrezionalità Abarčuk affermava la sua forza interiore, il suo ideale, la sua purezza. Era questa la sua consolazione, la sua fede. Eppure, anche in questo clima opprimente, in cui Stalin e Hitler sono al di sopra di ogni critica, in cui le carriere, le assegnazioni degli alloggi e perfino gli approvvigionamenti dipendono dalla capacità di ingraziarsi gli alti papaveri del partito più che da meriti e bisogni reali, e in cui non si può parlare liberamente perché tutti sospettano di tutti, anche in questo clima –dicevo – serpeggia un anelito di libertà, magari sotto forma di subdoli dubbi che nascono anche all’interno delle personalità più fanatiche, facendone traballare la fede cieca Quel che ho da dirti è che... Abbiamo sbagliato. E il nostro errore ha portato a questo. Non abbiamo mai capito cosa fosse la libertà. L’abbiamo soffocata mentre invece è la base, il senso, il fondamento di ogni fondamento. Senza libertà la rivoluzione proletaria non esiste. Il fatto è che Grossman è un umanista autentico, e la guerra o la politica gli interessano solo in quanto costituiscono un tramite per parlare della vita (non è un caso che la parola sia finita nel titolo). Come Tolstoj riflette profondamente sul senso della storia così Grossman riflette sul grande mistero del male. Quello che può sembrare solo un vasto, appassionante affresco storico si rivela infatti, ben presto, per ciò che è: una bruciante riflessione sul male. Del male, Vasilij Grossman svela con implacabile acutezza la natura, che è menzogna e cancellazione della verità mediante la mistificazione più abietta: quella di ammantarsi di bene, un bene astratto e universale nel cui nome si compie ogni atrocità e ogni bassezza, e che induce a piegare il capo davanti alle sue esigenze. «Molti libri sono stati scritti su come combattere il male, su cosa sia il male e cosa il bene. «Ma resta, inconfutabile, un cruccio: là dove si leva l’alba del bene eterno che mai sarà vinto dal male – quel male, anch’esso eterno, che mai trionferà sul bene –, là muoiono vecchi e bambini e scorre il sangue. E dinanzi al male della vita non solo gli uomini, ma anche Dio è impotente. «E allora, forse, è la vita il male? «Ho visto la forza incrollabile dell’idea del bene sociale, che è nata nel mio paese. L’ho vista nel periodo della collettivizzazione forzata e nel Trentasette. Ho visto uccidere nel nome di un ideale bello e umano come quello cristiano. Ho visto le campagne morire di fame, e i figli dei contadini che morivano tra le nevi della Siberia; ho visto le tradotte che da Mosca, Leningrado e altre città della Russia portavano in Siberia centinaia di migliaia di uomini e donne, i nemici della grande, luminosa idea del bene sociale. Era un’idea bella e grande, e ha ucciso senza pietà, ha rovinato le vite di molti, ha separato le mogli dai mariti, i figli dai padri. «Ora sul mondo incombe il grande orrore del nazismo tedesco. L’aria è impregnata delle grida e dei lamenti dei giustiziati. Nero è il cielo, e il sole si è spento nel fumo dei forni crematori. «Ma anche questi crimini – inauditi non solo per l’Universo, ma anche per gli uomini di questa Terra – sono compiuti in nome del bene. «Che la vita sia davvero il male? La gente comune ha nel cuore l’amore per gli esseri viventi, ama la vita e ne ha cura in modo naturale e spontaneo, è felice del calore della propria casa dopo una giornata di lavoro e non accende roghi e falò sulle piazze. «E dunque oltre al bene grande e minaccioso esiste la bontà di tutti i giorni. una bontà senza testimoni, piccola, senza grandi teorie. La bontà illogica, potremmo chiamarla. La bontà degli uomini al di là del bene religioso e sociale. E ho visto che nella lotta contro il male non è l’uomo a essere impotente: per quanto poderoso, il male non può nulla nella sua guerra contro l’uomo. La bontà è debole, fragile: questo è il segreto della sua immortalità. Essa è invincibile. Più è sciocca, più è illogica e indifesa, tanto più è imponente. Il male non può nulla contro la bontà! La sua prosa semplice, precisa, sincera, didascalica nel senso migliore del termine, mette infatti i suoi personaggi al centro di drammatici conflitti di coscienza, tanto nell’eccezionalità di una battaglia quanto nella normalità della vita quotidiana. Ad esempio, lo scienziato Strum, la cui ramificata famiglia è al centro di “Vita e destino”, vive sulla sua pelle l’ostracismo della comunità in cui lavora, in quanto, nonostante le sue geniali scoperte nel campo della fisica nucleare, è considerato dal partito ideologicamente ambiguo (probabilmente anche perché ebreo), ma, pur caduto in disgrazia, è confortato dal sollievo di non aver voluto umiliarsi in una autoconfessione pubblica; quando però, con un vero e proprio coup de théâtre (la telefonata di Stalin), viene reintegrato nei suoi diritti e nei suoi privilegi, finalmente ammirato da tutti come un esempio di rettitudine morale, non riesce a resistere alle subdole lusinghe del partito e accetta di firmare una ripugnante lettera in cui si schiera apertamente contro alcuni onesti colleghi incarcerati con risibili accuse, con ciò condannandosi a una vita di recriminazioni e di rimorsi. Com’è strano l’uomo! Prima sarebbe stato capace di rinunciare alla sua stessa vita, ora non aveva la forza di dire no a qualche zuccherino. Aveva firmato per torbida, disgustosa, prona obbedienza. Deboli possono essere i giusti come i peccatori. La differenza è che, compiuta un’opera buona, un uomo meschino se ne vanta in eterno, mentre il giusto non si accorge nemmeno delle sue buone azioni, ma ricorda in eterno un peccato che ha commesso. Di fronte ad analoghi dilemmi si trovano anche Krymov (che da delatore per il bene della rivoluzione si trova ad essere a sua volta accusato e imprigionato), Novikov (che decide a rischio della sua carriera di ritardare di pochi minuti l’ordine di attacco giuntogli dagli alti comandi pur di salvaguardare la vita dei suoi soldati), e così via, fino al più insignificante kapò di un campo di concentramento. Tutti hanno la possibilità, per quanto infinitesimale, di cambiare il proprio destino (ecco la seconda parola del titolo) con una scelta autonoma che modifichi il corso degli eventi. Ed è proprio in questa facoltà, che è al contempo diritto e dovere di ogni essere umano, che si manifesta la sua profonda natura. Grossman è affascinato dalla eterna lotta tra l’umanità che è dentro ogni uomo e le forze, a volte potenti e soverchianti, che cercano in tutti i modi di annientarla. e per quanto sapessero tutti che in epoche tremende l’uomo non è più artefice del proprio destino e che è il destino del mondo ad arrogarsi il diritto di condannare o concedere la grazia, di portare agli allori o di ridurre in miseria, e persino di ridurre in polvere di lager, tuttavia né il destino del mondo, né la storia, né la collera dello Stato, né battaglie gloriose e ingloriose erano in grado di cambiare coloro che rispondono al nome di uomini; ad attenderli potevano esserci la gloria per le imprese compiute oppure la solitudine, la disperazione, il bisogno, il lager e la morte, ma avrebbero comunque vissuto da uomini e da uomini sarebbero morti, e chi era già morto era comunque morto da uomo: è questa la vittoria amara ed eterna degli uomini su tutte le forze possenti e disumane che sempre sono state e sempre saranno nel mondo, su ciò che passa e ciò che resta. Il risultato non è mai scontato (e la pietà dello scrittore per chi non ce la fa lo dimostra), spesso perfino le personalità migliori sono costrette, per debolezza o viltà, a soccombere, ma – è questo il messaggio più consolante, il testamento spirituale che ci ha lasciato Grossman – l’umanità non può mai essere sconfitta definitivamente (grazie magari all’inatteso gesto di una vecchia russa che aiuta un prigioniero di guerra tedesco in difficoltà, o alla scelta del comandante Grecov di far tornare nelle retrovie, e così risparmiar loro la vita, una coppia di soldati innamorati la notte prima della capitolazione del suo avamposto, o alla commovente decisione di Zenja di rinunciare al proprio amore pur di aiutare il suo primo marito rinchiuso in prigione), e l’anelito alla libertà è troppo forte per costringere gli uomini a piegarsi a lungo sotto il giogo innaturale di dittature e regimi autoritari. Ciò che è vivo non ha copie. Due persone, due arbusti di rosa canina, non possono essere uguali, è impensabile… E dove la violenza cerca di cancellare varietà e differenze, la vita si spegne. Le assemblee umane hanno un unico scopo: conquistare il diritto a essere diversi, speciali, il diritto di sentire, pensare e vivere ognuno a suo modo, ognuno a suo piacimento. All’indomani di un olocausto risorgerà sempre l’Uomo Nuovo, l’uomo che, anche senza essere mosso da ideali religiosi (Dio è quasi del tutto assente dalle pagine del laico Grossman), saprà tirare fuori dal profondo di se stesso quegli insopprimibili valori di fratellanza, di compassione e di giustizia che da millenni hanno accompagnato l’umanità lungo il suo lungo e travagliato cammino «La storia degli uomini non è dunque la lotta del bene che cerca di sconfiggere il male. La storia dell’uomo è la lotta del grande male che cerca di macinare il piccolo seme dell’umanità. Ma se anche in momenti come questi l’uomo serba qualcosa di umano, il male è destinato a soccombere».

martedì 22 gennaio 2013

Il Peccato di Isotta



Un’ umanista moderna riscopre e racconta una grande umanista veronese del XV secolo: Isotta Nogarola, facendo rivivere la Verona del tempo  con i suoi paesaggi urbani, i mercati, le chiese, le dimore patrizie sede d’incontri di politici e letterati. 
Frutto di una scrupolosissima ricerca, alternando citazioni e profondi afflati poetici, quello di Anna Pacifico è un romanzo storico coltissimo ed eruditissimo che dimostra una grande capacità di introspezione per la sapienza, la delicatezza e la profondità con la quale  va raccontando il dramma  di Isotta. Votata allo studio delle lettere e condannata ad un ruolo di comprimarietà dalle consuetudini del suo tempo che accetta, pur non condividendole, ella non cessa mai di combattere per la sua liberazione senza scorrettezze nè furberie accettando di pagare di persona ed anzi infliggendosi da se stessa la punizione: un esempio fulgido per la nostra età decadente che ha fatto del profitto, della frode e dell’impunità i suoi valori portanti . Isotta, quasi una femminista ‘ante litteram’, e si ritaglia un posto di spicco nel panorama letterario italiano ed europeo, vivendo nel contempo la sua sofferta storia d’amore. 
“La lettura apre l’animo, lo purifica, lo allena a decifrare sentimenti ed intenzioni, ad affinare il giudizio, a soppesare le sofferenze e la disperazione”  ed è proprio questo il lavoro che l’autrice svolge nel suo romanzo lasciandoci il senso del dramma vissuto da Isotta ma anche una grande serenità, un abbandono totale. L’ultima parte del romanzo è la più intima, malinconica, poetica. la vita della protagonista si spegne piano piano come la fiammella di una candela consunta “..quando si dimettono ad uno ad uno gli affetti più cari, è come morire a poco a poco.”,  ” ..mi hanno abbandonato i demoni e gli angeli, e con essi se ne sono andati anche i miei sogni”.  La figura della protagonista, uscita dalle nebbie della storia e fatta rivivere nelle pagine di Anna Pacifico, vi ritorna sfumando a poco a poco  e parlando di Eutimia, la sua creatura spirituale dichiara: “nessuno potrà mai conoscere il suo vero volto. Esso mi appartiene, come l’altra faccia della luna appartiene alla notte” perchè in realtà “dei nostri giorni resta così poco e soltanto quel che vogliamo, il resto dell’opera lo setaccia il tempo”.
Un romanzo storico-poetico quindi che non è una cronaca perchè come dichiara l’autrice: “oltre le pagine di qualsiasi ricostruzione storica, restano ‘le porte dei morti’, quelle sbiadite cicatrici che marchiano le antiche dimore, a custodire tutte le  risposte possibili alle istanze dell’immaginazione”

domenica 20 gennaio 2013

La vita di Pi



Un libro che è uno straordinario racconto d'avventura e al tempo stesso una metafora della vita: "il mondo e' come lo percepiamo, giusto? Nel percepirlo ci aggiungiamo sempre qualcosa, e la vita diventa una storia" . Potrebbe essere accostato a "La strada" di Cormac McCarthy perché riflette sul significato della vita in condizioni estreme, quando non c'è più nulla che possa giustificare la lotta, quando la vita stessa e' solo fatica, sofferenza, buio. Eppure nel libro di Yann Martel c'è una grande serenità di fondo che deriva dal senso religioso del protagonista, una religiosità non strutturata, Dio e' presente, c'è', e' il Dio nella sua concezione più alta "Colui che è " tanto che il protagonista diventa contemporaneamente induista, cristiano e musulmano perché   ".. tutte le religioni  sono vere. Io voglio solo amare Dio" . Per Pi e' impossibile pensare che Dio non esista: " gli atei sono fratelli e sorelle di un altro credo. Ogni loro parola e' impregnata di fede. Percorrono fino in fondo il cammino della ragione, ma poi fanno un salto, proprio come me." La vicenda ha connotati altamente drammatici ed a tratti raccapriccianti (parlando di naufraghi torna alla mente la zattera della medusa con tutto il suo carico di crudeltà ) ma su tutto prevale in ogni istante l'amore per la vita :" la vita e' così bella che la morte se ne innamora. Un amore possessivo e geloso che afferra tutto ciò che può ", il rispetto per tutti gli esseri viventi: Pi, vegetariano, a distanza di anni prega ancora per le tartarughe ed i pesci che ha brutalmente ucciso per sopravvivere. Tutta la vicenda e' inoltre una grande metafora: domare la tigre che lo tiene in vita e' domare la parte più selvaggia di noi, quella che ci consente di reagire alle avversità ma che tenderebbe a prendere il sopravvento ed annientarci come uomini. Un libro ben scritto, forse un po' lento all' inizio ma poi incalzante e commovente nel quale ci sono tutti gli elementi tradizionali del libro d'avventura, compresa l'isola misteriosa. Un racconto sospeso come e' sospeso il protagonista tra mare e cielo, realtà' resa molto bene dal cinema con inquadrature nelle quali la scialuppa sembra fluttuare nel cielo,  con plancton e pesci luminescenti che si confondono con le stelle.  Il Film molto e' fedele al libro (fa eccezione l incontro in mezzo al Pacifico del naufrago francese che finisce poi tra le fauci della tigre), anch'esso un po' lento all'inizio ma poi coinvolgente, disturba solo un poco l'eccessiva impronta new age, ma nel complesso merita un giudizio decisamente positivo.

domenica 12 febbraio 2012

Il nuovo film di Martin Scorzese è un capolavoro: fotografia impeccabile ottimizzata per il 3d, malinconico, nostalgico, commovente, poetico, delizioso. Sicuramente segnerà la storia del cinema per l'uso della tecnologia 3D mai troppo invadente, mai fine a se stessa ma fluida e naturale, onirica, coinvolgente.
Alcuni personaggi poi sono indimenticabili come il cattivo poliziotto della stazione, citazione dei film dei primordi,come pure l'ambientazione in una grande stazione parigina, personaggio reale e caricatura al tempo stesso. Una trama semplice, avvincente condita di buoni sentimenti e buoni propositi nonché dall'amore e dalla nostalgia per i pionieri del cinema in particolare per Georges Melies pioniere degli effetti speciali.

giovedì 22 dicembre 2011

IL COLA



Ci sono persone che non sono persone normali: sono una visione, un alito di vento, un soffio di vita, un sogno... "Cola" era uno di questi. Quando nella Sacra Scrittura leggi: ".. E poiché essi stavano fissando il cielo mentre Egli se n'andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? ..." se hai conosciuto Nerio Marini non puoi non identificarlo con uno di quegli "uomini in bianche vesti". Se gli angeli si manifestano in qualche modo in questo mondo essi prendono le sembianze di queste persone.
Sono uomini umili, semplici come il "cola" che si muoveva sempre in bicicletta (ed in bicicletta è morto, travolto da un TIR),che non aveva famiglia se non la Croce Verde, sono uomini allegri, sorridenti, aperti al prossimo, sono quelli che ti fanno compagnia nella solitudine, che ti soccorrono nel bisogno, che gioiscono con te e con te soffrono e piangono. Oggi tutta la città ha perso un fratello maggiore.

lunedì 1 agosto 2011

Il clandestino delle stelleVoyager 1 va nell'universo



Dopo trentaquattro anni la sonda sta lasciando il Sistema solare per la Via Lattea. Con sé porta il celebre "Disco d'oro", con la speranza che anche gli altri abitanti dell'Universo possano ascoltare Chuck Berry e Beethoven


di VITTORIO ZUCCONI

La prima immagine della Terra vista dal Voyager 1 Chissà se ha pianto questo bambino di 722 chili, quando è uscito dal grembo del Sole e ha cominciato la vita fra le stelle? Chissà se Voyager 1, il primo clandestino dell'Universo, ha avuto paura, se già sta provando nostalgia di quel pianetino e di quel sistema solare che ha abbandonato per emigrare e dove era stato concepito con amore e con trepidazione 33 anni, 10 mesi e 31 giorni or sono? Se anche stesse piangendo, naturalmente nessuno lo potrebbe sentire, nel vuoto che lo avvolge ora che ha bucato l'eliosfera, la sacca amniotica che lo ha avvolto per tutta la sua esistenza, ed è arrivato laddove nessun figlio degli uomini era mai arrivato nei 13 miliardi di anni dal Big Bang. Soltanto noi, qui nella casa dalla quale se ne andò, riusciamo ancora a percepire qualche vaghissimo segnale anche se impiega sedici ore per raggiungerci. Ma uno dei suoi genitori, Tom Krimigis, ancora lo segue e vorrebbe proteggerlo perché, come sappiamo, un figlio è per sempre e non si smette mai di essere padri e madri.IL VIDEO CON IL CONTENUTO DEL "DISCO D'ORO"1Si sa che ha lasciato il Sistema solare, questo angoletto di Universo del quale noi ci crediamo il centro, per avventurarsi dentro la Via Lattea, la nostra galassia, dentro la quale stiamo in proporzione come una moneta da dieci centesimi caduta nel territorio della Francia. Ha fatto sapere a casa, da bravo figlio, che attorno a lui è calata
una quiete inattesa e gli ultimi soffi del "vento solare", degli elettroni e protoni emessi dal Sole, non lo raggiungono più. Non ha trovato turbolenze, vortici, brutte compagnie, l'atteso e teorico "shock" che era stato previsto, e continua a sgambettare alla velocità di tredici chilometri al secondo, 46mila chilometri all'ora. Potrebbe viaggiare per sempre, nel "sempre" della vita dell'Universo, anche dopo che il suo cuore nucleare al plutonio avrà smesso di battere nel 2020.È un clandestino dell'Universo, il primo emigrato illegale sfuggito al Sole, che nessun'altra stella o galassia ha mai invitato. Perfetto simbolo delle perenni migrazioni di uomini e cose che l'umanità non cessa mai di compiere, indifferente a leggi, barriere, gravità. Tenta di portare con sé documenti che nel 1977, quando fu concepito e lanciato, fisici, matematici, filosofi della scienza, astrofisici come Carl Sagan, scrissero e immaginarono potessero essere comprensibili e decrittabili da creature intelligenti sparse fra i duecento miliardi di stelle. Potrebbero evitargli l'espulsione, la detenzione o la distruzione. È il "Disco d'oro", che sulle prime i progettisti non volevano perché temevano che potesse alterare gli equilibri sensibilissimi della sonda, ma dovettero accettare.Porta le prime battute dei Concerti brandeburghesi di Bach, sublime esempio di matematica dell'anima, 115 suoni della Terra, vento, mare, uccelli, balene, messaggi dei tromboni politici del momento, il segretario generale dell'Onu Waldheim e il presidente americano Jimmy Carter, dei quali a un ascoltatore del quinto o sesto millennio non potrebbe importare di meno. I saluti di terricoli in 55 lingue diverse; grafici con i parametri che rappresentano il sistema solare; simboli di molecole. Il tutto è inciso su un disco microsolco di rame placcato in oro a 16 giri, come gli album dell'epoca degli Elvis o dei Led Zeppelin, che ormai anche qui sulla Terra sarebbe quasi impossibile da ascoltare, essendo il "16 giri" estinto come i mammuth. Per questo, il "Disco d'oro" è chiuso in un cofanetto sigillato, con testina e puntina incluse, nella speranza che un E. T. un po' arretrato possieda un vecchio giradischi. O che oltre la Via Lattea esista un sito come e-bay dove acquistare apparecchi usati.Porta quindi nello spazio intergalattico il segno di un'epoca che non esiste più e ci appare lontanissima nello spazio e nel tempo, quanto lui. È l'ambasciatore di una Terra che, atomi e molecole ed equazioni a parte, non è più quella che lui lasciò. Anche i ragazzi di oggi, figuriamoci gli "alieni", faticherebbero a riconoscerla. Uomini e donne sono approssimativamente ancora quello che erano, qualche centimetro più alti nella media, grazie alla migliore alimentazione di tanti, e destinati a vivere un poco più a lungo, ma chi dovesse intercettare il clandestino delle stelle non lo saprà mai. Le immagini frontali di un maschio e di una femmina d'uomo, che erano state incise sui dischi inseriti nelle sonde Pioneer anch'esse destinate alle stelle, furono eliminate per le proteste dei puritani, indignati al pensiero che qualche inconcepibile creatura nell'universo potesse scandalizzarsi e pensar male di noi terrestri.Ma le similitudini fra l'oggi e il '77 finiscono con l'anatomia umana. Quel 1977 era l'anno della morte di Elvis Presley e dell'insediamento alla Casa Bianca di Carter, della benzina (in America) a 25 centesimi di dollaro al litro, della pace fra Egitto e Israele, con il primo riconoscimento di uno Stato arabo al diritto israeliano di esistere come nazione sovrana. Era l'anno dell'inaugurazione dell'oleodotto dell'Alaska, quello che avrebbe dovuto soddisfare per sempre la fame di petrolio, del primo volo commerciale del Concorde, della prima risonanza magnetica sperimentata a Brooklyn, dell'ultima esecuzione con la ghigliottina in Francia e della prima esecuzione di un condannato in America, dopo la pausa imposta dalla Corte Suprema. A Sanremo conduceva Mike Bongiorno e vincevano gli Homo Sapiens con Bella da morire e a Roma governava Giulio Andreotti. Proprio nel 1977, Spielberg ci illuse con i suoi Incontri ravvicinati.Il suo computer di bordo, che pure lo ha guidato in un viaggio interplanetario che ci ha regalato immagini meravigliose di Giove, Saturno e la prima foto cartolina del Sistema solare visto da fuori, inviata nel 1990, è un patetico processore con memoria da 68K, sessantottomila byte, quattro milioni di volte più piccola dei 256G, miliardi di byte dentro il minuscolo laptop sul quale sto scrivendo. Ma quella era la capacità dei personal computer che lanciarono la cyberivoluzione che oggi stiamo vivendo nella esplosione della Rete, era la memoria del Commodor Pet, commercializzato proprio nel 1977 o, nello stesso anno, dell'Apple II, l'antenato della dinastia degli Apple Macintosh. È archeologia del futuro, quella che il bambino ormai adulto e uscito dalla casa del Sole porta dentro di sé, nell'ipotesi neppure quantificabile che in un tempo lontano dai noi milioni di anni luce finisca nella rete di qualche pescatore interstellare. Ma se ascoltare il primo movimento dei Concerti brandeburghesi o il fruscio del vento in un bosco non dirà nulla agli ascoltatori di altri mondi, grazie a quell'ammasso di sofisticatissima e antiquata ferraglia che ora vaga tra le stelle, abbiamo finalmente la risposta all'interrogativo che ci tormenta dalla prima volta che il bisnonno scimmia si eresse sugli arti posteriori e alzò lo sguardo verso il cielo notturno. I viaggiatori interstellari esistono. Ed è lui. Io, robot.