domenica 13 dicembre 2020

Vita e destino” è uno straordinario romanzo che potrebbe essere definito la “Guerra e pace” del XX secolo. Rivive l’epopea della battaglia di Stalingrado, attraverso una miriade di personaggi, non solo sovietici ma anche tedeschi, le cui travagliate vicissitudini delineano un efficace ritratto dei due regimi in lotta, il nazismo e il comunismo. Ogni epoca ha una città che la rappresenta e ne costituisce l’anima, la volontà. La seconda guerra mondiale è stata un’epoca dell’umanità e in quegli anni Stalingrado è stata la capitale del mondo. Stalingrado era i pensieri e le passioni del genere umano. Krymov aveva l’impressione che la storia non fosse più un libro, ma che fosse confluita nella vita vera, confondendosi con essa. Mentre Tolstoj non esitava ad affermare la superiorità del popolo russo, del suo carattere e dei suoi condottieri, Grossman appare molto più realista e non nasconde che le ideologie nazista e stalinista non differiscono poi troppo tra loro, avendo entrambe tra i loro segreti propositi quello di asservire la libertà degli individui a un superiore obiettivo, quello dello Stato totalitario. Stalin costruisce quel che serve allo Stato, e non all’uomo. L’industria pesante serve allo Stato, non all’uomo. La gente non se ne fa nulla del canale tra Mar Bianco e Mar Baltico. Le esigenze dello Stato sono a un estremo, quelle dell’uomo all’altro. E non si concilieranno mai». Il comandante nazista del lagher, Liss, riesce a turbare il prigioniero bolscevico tutto d’un pezzo Mostovskoj affermnando: «Quando io e lei ci guardiamo in faccia, non vediamo solo un viso che odiamo. È come se ci guardassimo allo specchio. È questa la tragedia della nostra epoca. L’ipostasi più evidente di questa situazione è quella dei campi di concentramento dove milioni di persone (e qui lager e gulag hanno veramente pochi punti di discontinuità) sono morte e hanno lavorato in condizioni di schiavitù. L’autore si domanda come possano essersi sviluppati all’insaputa o con la condiscendenza del popolo Era in piedi di fronte a Mostovskoj con i suoi miseri abiti e lo straccio in mano, austero, inflessibile, convinto di essere nel giusto, certo del proprio diritto più che divino di fare della causa che serviva il giudice sommo dei destini umani. Perché che cosa poteva, lui, contro la volontà di forze possenti come una guerra mondiale, un poderoso movimento nazionalista, un partito implacabile e uno Stato coercitivo? Chi ha peccato ha conosciuto sulla sua pelle la potenza – sterminata – di uno Stato totalitario, una forza tremenda che incatena la volontà umana con la propaganda, la fame, la solitudine, il lager, la minaccia di morte, l’anonimato, l’ignominia. Ogni passo che compie sotto la minaccia della miseria, della fame, del lager e della morte, l’uomo ha sempre e comunque accanto la propria volontà, libera e senza catene. Il destino prende per mano l’uomo, ma l’uomo lo segue perché vuole ed è comunque libero di non farlo. Il destino prende per mano l’uomo e l’uomo diventa strumento di forze di sterminio: perché ci guadagna, non perché ci rimette. Lui lo sa bene e sceglie di guadagnarci; il destino e l’uomo avranno anche scopi diversi, ma la strada è una sola. I personaggi del romanzo appartengono alle più varie tipologie: dai militanti più fanatici ai cittadini ideologicamente meno ossequiosi, scorrono nelle sue 800 pagine tantissimi esemplari umani, tutti omologati dal conformismo del terrore, in un periodo in cui bastava una semplice battuta o una parola fuori posto per perdere il posto di lavoro o, peggio, per finire deportati in Siberia. A volte l’odio tra chi appartiene allo stesso partito e ha opinioni che si distinguono solo nelle sfumature è maggiore dell’odio verso chi del partito è nemico. Si respira ovunque un clima asfissiante e kafkiano, che l’emergenza bellica attenua solamente in parte, visto che anche al fronte imperversano i commissari di partito, i quali vigilano con ottusa solerzia affinché non venga mai meno nemmeno nelle trincee l’ortodossia ideologica del regime. Aveva portato in tribunale gli ingegneri del Kuzbass che avevano nostalgia della famiglia a Mosca. Aveva fatto condannare quaranta operai socialmente ambigui che avevano lasciato il cantiere per tornare al paese. E aveva rinnegato suo padre, un borghese. Essere inflessibili era una gioia. Esercitando la sua discrezionalità Abarčuk affermava la sua forza interiore, il suo ideale, la sua purezza. Era questa la sua consolazione, la sua fede. Eppure, anche in questo clima opprimente, in cui Stalin e Hitler sono al di sopra di ogni critica, in cui le carriere, le assegnazioni degli alloggi e perfino gli approvvigionamenti dipendono dalla capacità di ingraziarsi gli alti papaveri del partito più che da meriti e bisogni reali, e in cui non si può parlare liberamente perché tutti sospettano di tutti, anche in questo clima –dicevo – serpeggia un anelito di libertà, magari sotto forma di subdoli dubbi che nascono anche all’interno delle personalità più fanatiche, facendone traballare la fede cieca Quel che ho da dirti è che... Abbiamo sbagliato. E il nostro errore ha portato a questo. Non abbiamo mai capito cosa fosse la libertà. L’abbiamo soffocata mentre invece è la base, il senso, il fondamento di ogni fondamento. Senza libertà la rivoluzione proletaria non esiste. Il fatto è che Grossman è un umanista autentico, e la guerra o la politica gli interessano solo in quanto costituiscono un tramite per parlare della vita (non è un caso che la parola sia finita nel titolo). Come Tolstoj riflette profondamente sul senso della storia così Grossman riflette sul grande mistero del male. Quello che può sembrare solo un vasto, appassionante affresco storico si rivela infatti, ben presto, per ciò che è: una bruciante riflessione sul male. Del male, Vasilij Grossman svela con implacabile acutezza la natura, che è menzogna e cancellazione della verità mediante la mistificazione più abietta: quella di ammantarsi di bene, un bene astratto e universale nel cui nome si compie ogni atrocità e ogni bassezza, e che induce a piegare il capo davanti alle sue esigenze. «Molti libri sono stati scritti su come combattere il male, su cosa sia il male e cosa il bene. «Ma resta, inconfutabile, un cruccio: là dove si leva l’alba del bene eterno che mai sarà vinto dal male – quel male, anch’esso eterno, che mai trionferà sul bene –, là muoiono vecchi e bambini e scorre il sangue. E dinanzi al male della vita non solo gli uomini, ma anche Dio è impotente. «E allora, forse, è la vita il male? «Ho visto la forza incrollabile dell’idea del bene sociale, che è nata nel mio paese. L’ho vista nel periodo della collettivizzazione forzata e nel Trentasette. Ho visto uccidere nel nome di un ideale bello e umano come quello cristiano. Ho visto le campagne morire di fame, e i figli dei contadini che morivano tra le nevi della Siberia; ho visto le tradotte che da Mosca, Leningrado e altre città della Russia portavano in Siberia centinaia di migliaia di uomini e donne, i nemici della grande, luminosa idea del bene sociale. Era un’idea bella e grande, e ha ucciso senza pietà, ha rovinato le vite di molti, ha separato le mogli dai mariti, i figli dai padri. «Ora sul mondo incombe il grande orrore del nazismo tedesco. L’aria è impregnata delle grida e dei lamenti dei giustiziati. Nero è il cielo, e il sole si è spento nel fumo dei forni crematori. «Ma anche questi crimini – inauditi non solo per l’Universo, ma anche per gli uomini di questa Terra – sono compiuti in nome del bene. «Che la vita sia davvero il male? La gente comune ha nel cuore l’amore per gli esseri viventi, ama la vita e ne ha cura in modo naturale e spontaneo, è felice del calore della propria casa dopo una giornata di lavoro e non accende roghi e falò sulle piazze. «E dunque oltre al bene grande e minaccioso esiste la bontà di tutti i giorni. una bontà senza testimoni, piccola, senza grandi teorie. La bontà illogica, potremmo chiamarla. La bontà degli uomini al di là del bene religioso e sociale. E ho visto che nella lotta contro il male non è l’uomo a essere impotente: per quanto poderoso, il male non può nulla nella sua guerra contro l’uomo. La bontà è debole, fragile: questo è il segreto della sua immortalità. Essa è invincibile. Più è sciocca, più è illogica e indifesa, tanto più è imponente. Il male non può nulla contro la bontà! La sua prosa semplice, precisa, sincera, didascalica nel senso migliore del termine, mette infatti i suoi personaggi al centro di drammatici conflitti di coscienza, tanto nell’eccezionalità di una battaglia quanto nella normalità della vita quotidiana. Ad esempio, lo scienziato Strum, la cui ramificata famiglia è al centro di “Vita e destino”, vive sulla sua pelle l’ostracismo della comunità in cui lavora, in quanto, nonostante le sue geniali scoperte nel campo della fisica nucleare, è considerato dal partito ideologicamente ambiguo (probabilmente anche perché ebreo), ma, pur caduto in disgrazia, è confortato dal sollievo di non aver voluto umiliarsi in una autoconfessione pubblica; quando però, con un vero e proprio coup de théâtre (la telefonata di Stalin), viene reintegrato nei suoi diritti e nei suoi privilegi, finalmente ammirato da tutti come un esempio di rettitudine morale, non riesce a resistere alle subdole lusinghe del partito e accetta di firmare una ripugnante lettera in cui si schiera apertamente contro alcuni onesti colleghi incarcerati con risibili accuse, con ciò condannandosi a una vita di recriminazioni e di rimorsi. Com’è strano l’uomo! Prima sarebbe stato capace di rinunciare alla sua stessa vita, ora non aveva la forza di dire no a qualche zuccherino. Aveva firmato per torbida, disgustosa, prona obbedienza. Deboli possono essere i giusti come i peccatori. La differenza è che, compiuta un’opera buona, un uomo meschino se ne vanta in eterno, mentre il giusto non si accorge nemmeno delle sue buone azioni, ma ricorda in eterno un peccato che ha commesso. Di fronte ad analoghi dilemmi si trovano anche Krymov (che da delatore per il bene della rivoluzione si trova ad essere a sua volta accusato e imprigionato), Novikov (che decide a rischio della sua carriera di ritardare di pochi minuti l’ordine di attacco giuntogli dagli alti comandi pur di salvaguardare la vita dei suoi soldati), e così via, fino al più insignificante kapò di un campo di concentramento. Tutti hanno la possibilità, per quanto infinitesimale, di cambiare il proprio destino (ecco la seconda parola del titolo) con una scelta autonoma che modifichi il corso degli eventi. Ed è proprio in questa facoltà, che è al contempo diritto e dovere di ogni essere umano, che si manifesta la sua profonda natura. Grossman è affascinato dalla eterna lotta tra l’umanità che è dentro ogni uomo e le forze, a volte potenti e soverchianti, che cercano in tutti i modi di annientarla. e per quanto sapessero tutti che in epoche tremende l’uomo non è più artefice del proprio destino e che è il destino del mondo ad arrogarsi il diritto di condannare o concedere la grazia, di portare agli allori o di ridurre in miseria, e persino di ridurre in polvere di lager, tuttavia né il destino del mondo, né la storia, né la collera dello Stato, né battaglie gloriose e ingloriose erano in grado di cambiare coloro che rispondono al nome di uomini; ad attenderli potevano esserci la gloria per le imprese compiute oppure la solitudine, la disperazione, il bisogno, il lager e la morte, ma avrebbero comunque vissuto da uomini e da uomini sarebbero morti, e chi era già morto era comunque morto da uomo: è questa la vittoria amara ed eterna degli uomini su tutte le forze possenti e disumane che sempre sono state e sempre saranno nel mondo, su ciò che passa e ciò che resta. Il risultato non è mai scontato (e la pietà dello scrittore per chi non ce la fa lo dimostra), spesso perfino le personalità migliori sono costrette, per debolezza o viltà, a soccombere, ma – è questo il messaggio più consolante, il testamento spirituale che ci ha lasciato Grossman – l’umanità non può mai essere sconfitta definitivamente (grazie magari all’inatteso gesto di una vecchia russa che aiuta un prigioniero di guerra tedesco in difficoltà, o alla scelta del comandante Grecov di far tornare nelle retrovie, e così risparmiar loro la vita, una coppia di soldati innamorati la notte prima della capitolazione del suo avamposto, o alla commovente decisione di Zenja di rinunciare al proprio amore pur di aiutare il suo primo marito rinchiuso in prigione), e l’anelito alla libertà è troppo forte per costringere gli uomini a piegarsi a lungo sotto il giogo innaturale di dittature e regimi autoritari. Ciò che è vivo non ha copie. Due persone, due arbusti di rosa canina, non possono essere uguali, è impensabile… E dove la violenza cerca di cancellare varietà e differenze, la vita si spegne. Le assemblee umane hanno un unico scopo: conquistare il diritto a essere diversi, speciali, il diritto di sentire, pensare e vivere ognuno a suo modo, ognuno a suo piacimento. All’indomani di un olocausto risorgerà sempre l’Uomo Nuovo, l’uomo che, anche senza essere mosso da ideali religiosi (Dio è quasi del tutto assente dalle pagine del laico Grossman), saprà tirare fuori dal profondo di se stesso quegli insopprimibili valori di fratellanza, di compassione e di giustizia che da millenni hanno accompagnato l’umanità lungo il suo lungo e travagliato cammino «La storia degli uomini non è dunque la lotta del bene che cerca di sconfiggere il male. La storia dell’uomo è la lotta del grande male che cerca di macinare il piccolo seme dell’umanità. Ma se anche in momenti come questi l’uomo serba qualcosa di umano, il male è destinato a soccombere».

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